NELLA VALLE DEL PIOVA SUI LUOGHI DEL RISORGIMENTO NAZIONALE DEL 1848
LA BATTAGLIA DI SELVA E RINDEMERA, DOVE L’ARDORE POPOLARE VALSE PIU’ DI OGNI STRATEGIA
“28 maggio 1848 - Pochi dei nostri in eroica pugna fugarono più di mille austriaci”
Sebbene Calvi, fin dal suo primo arrivo in Cadore il 21 aprile 1848, d’intesa con Luigi Coletti e con altri maggiorenti cadorini, avesse delineato una precisa strategia difensiva contro la reazione austriaca, sfruttando appieno le potenzialità del teatro strategico dolomitico e predisponendo accuratamente sbarramenti e contromosse tattiche lungo tutte le direttrici della prevista avanzata nemica, è indubbio che solo con un’entusiastica e capillare risposta popolare, capace di coniugare altruisticamente e sinergicamente entusiasmo e calcolo, si poteva sperare di far fronte in qualche modo alla formidabile macchina da guerra diretta dal Gen. Von Welden verso il Passo Mauria e Casera Razzo ed affidata soprattutto all’iniziativa del Cap.Oppel.
Quanto contasse la vigilanza e l’iniziativa delle guardie civiche cadorine nei frangenti più imprevisti e soprattutto in assenza di Calvi, cui non si poteva certo chiedere ubiquità ed onnipresenza, è dimostrato proprio dalle stesse circostanze che portarono allo scontro di Rindemera e dalle sue stesse modalità di svolgimento.
In Oltrepiave già il giorno 26 maggio era giunta voce delle mosse austriache a Sauris e verso l’altopiano di Razzo, cosicché la mattina del 27 furono inviati in perlustrazione alcuni uomini del posto, una decina circa.
Alle 11 costoro, dopo aver percorso tutta la valle del Piova, giunsero alla malga di Razzo coll’intento di esplorare l’intero altopiano e di accertare l’eventuale presenza in zona di reparti austriaci. Appena arrivati entrarono nella vecchia casera e accesero pure il fuoco, ma, fatto un giro intorno alla malga, notarono delle impronte fresche sulla neve, per cui due coraggiosi, certi Da Rin Chiantre e Coronin, furono incaricati di portarsi verso “Mediana” ed appurare la situazione. Poiché essi tardavano a ritornare, un compagno uscì per andare loro incontro, ma, avvistati gli austriaci in arrivo, mise subito all’erta i compagni.
Il gruppo si diede naturalmente a fuga precipitosa e solo una volta arrivato alla “Federata” osò guardarsi indietro, giusto in tempo per notare una lunga fila di tedeschi circondare la casera e la malga, tenendo in mezzo i due cadorini prigionieri. Ben consci di non poter far nulla sul momento per loro, i compagni più fortunati si precipitarono di corsa attraverso il piano di “Ciampigotto”, giù per “Roda” e per “Antoia”, arrivando ansanti ed emozionati a Laggio sull’imbrunire. L’allarme si diffuse immediatamente in tutto l’Oltrepiave e un frenetico scampanio, propagatosi ben presto in ogni recesso della valle, indusse anzitutto ogni famiglia a mettere in salvo le cose più care.
Secondo il ricordo di Venanzio De Donà, “testimonio presente in azione allora d’anni 22”, la notizia dell’approssimarsi degli austriaci giunse invece a Lorenzago tramite staffetta da Forni verso le 4 pomeridiane del giorno 27, gettando il paese nello sconforto: la maggior parte dei militi di Lorenzago e Vigo infatti erano tutti al “Passo della Morte”, mentre quelli di Lozzo, al comando di don Zanetti, si trovavano alla “Chiusa” di Venas.
Intanto il “Comitato” di Pieve, informato dalle staffette che il nemico stava penetrando in Cadore per la valle del Piova, aveva ordinato al Capitano Mistrorigo, che si trovava ad ispezionare le difese nella valle dell’Ansiei, oltre Auronzo, di provvedere alle più urgenti necessità. Costui inviò allora in Oltrepiave 22 auronzani al comando di Giosafatte Monti, già sergente dell’Austria, e di Leopoldo Vecellio, che alle 10 di sera del 27 erano già a Pelos per unirsi agli altri 28 uomini già radunatisi in Oltrepiave. Tutti assieme, cantando inni popolari e al suono d’un vecchio tamburo, s’avviarono immediatamente verso la valle del Piova, mentre intorno echeggiavano grida festose: “Viva l’Italia! Viva Pio IX!”.
In quella notte serena di maggio, con la luna che, quasi al suo colmo, spuntava dall’altopiano di “Zergolòn”, il piccolo drappello di patrioti, coi suoi poveri fucili e con ben in vista il ramoscello d’abete sull’ala destra rivoltata del cappello, procedeva lungo la nuova e bella strada incontro al nemico, conscio di avere su di esso un unico vantaggio: la conoscenza dei luoghi. E proprio per il timore di inoltrarsi in un territorio sconosciuto ed ostile di notte, oltre che per la stanchezza, gli austriaci, ancora memori delle formidabili valanghe di sassi provate in precedenza al “Passo della Morte”, avevano deciso di rimandare all’alba la discesa verso Laggio: un ritardo esiziale, giacché, se avessero anticipato la mossa, avrebbero sorpreso ed annichilito senz’altro ogni difesa cadorina fino a Pieve.
A Razzo Oppel aveva deciso di sostare il pomeriggio del 27 e la notte sul 28, probabilmente incerto se perseguire la soluzione della Val Piova o tentare invece la carta della Val Frison. Durante il pernottamento, molti soldati dormirono nella casera e nella malga, altri improvvisarono dei bivacchi all’addiaccio, accendendo falò ed adoperando come legna assiti ed utensili della casera. I due prigionieri cadorini nel frattempo venivano interrogati e minacciati: ad Oppel interessava conoscere soprattutto l’entità delle forze degli insorti, la qualità del loro armamento, l’esatta ubicazione delle forze del Gen.Durando, che si diceva essere ormai prossimo e temibile. I nostri, impauriti e chissà con quale vocabolario misto di italiano e di tedesco, assicurarono che in Cadore non c’erano né Piemontesi né Romani e pare che il Da Rin Chiantre arrivasse a dire che i cadorini non avevano a disposizione che pochi fucili “da uccelli”.
I 50 cadorini, giunti all’alba del 28 in “Cima Losco”, avvistarono gli austriaci che discendevano in fila lungo il sentiero innevato di “Roda”, avendo come guide forzate i due prigionieri di Vigo. Il Monti però, non ritenendo il luogo propizio alla resistenza, preferì retrocedere immediatamente fino a “Selva”, dove dispose i suoi in ordine di battaglia, utilizzando pure i 40 auronzani appena arrivati di rinforzo dal “Passo della Morte”, condotti da Vigilio Da Vià di Vallesella.
Gli austriaci, discesi già in “Antoia”, stavano avanzando tranquilli per la valle, speranzosi ormai di avere una strada in ogni senso in discesa, allorché, verso le 7, furono accolti all’inizio dei prati di “Selva” da un “Alt!”, che li indusse a fermarsi immediatamente serrando le fila, e quindi da una scarica di fucileria. Il Monti infatti aveva schierato bene i suoi, dislocando alcuni buoni tiratori sulla dorsale del monte, a sinistra, e pochi altri al di là del Piova, mentre i più stavano al centro. Bastarono quei primi colpi, al di là delle perdite subite, a persuadere gli austriaci che si trattava anche di “stutzen” e non solo dei dichiarati “fucili da uccelli”, per cui sfogarono subito la loro rabbia sul mendace testimone, uccidendolo.
Intanto alla prima scarica essi, vinta l’iniziale sorpresa, avevano risposto con un “vivissimo fuoco di pelottone” e si erano quindi velocemente distesi a catena sopra e sotto la via, dalle falde del monte alle sponde del torrente. Furono usati pure dei “razzi alla congrève”, in pratica piccole bombe, che però non raggiunsero il bersaglio e suscitarono risa di scherno tra i patrioti cadorini. Oppel cercò di forzare l’ala sinistra dello schieramento cadorino e di aggirare il nucleo centrale della difesa con una colonna fatta salire a destra, e la manovra sembrò riuscire. Già erano caduti due auronzani e il tamburino era ferito, per cui il Monti decise di retrocedere ancora., dopo aver ordinato di sbarrare la strada abbattendo parecchi alberi del bosco di “Stabiuco”.
Egli riconobbe il sito più adatto per la resistenza ad oltranza in prossimità del cunettone sulla vecchia arteria della Val Piova, situato vicino all’attuale ponte sul "Rin de Mera", proprio per la particolare configurazione dei luoghi e della strada, in quel punto caratterizzata da una salita e da una accentuata ed imprevedibile curva sulla quale incombevano diversi “lavinàs”, ovvero canaloni ghiaiosi, lungo i quali i cadorini erano in grado di far precipitare tronchi e massi.
Si videro i primi austriaci avanzare cauti nel prato posto dirimpetto la curva e appostarsi intorno ad un fienile, preoccupati dello scintillio delle armi che i nostri, con continui spostamenti, furbescamente ostentavano tra gli alberi e sulle alture, simulando forze ben maggiori. Si accese ben presto, verso le ore 9, una violenta sparatoria, ma gli insorti apparivano abbastanza protetti dall’orlo della vecchia strada e da alcuni trinceroni allora improvvisati a difesa. Nonostante l’intensità del fuoco dei difensori non potesse competere con quello degli attaccanti, gli austriaci non riuscivano a progredire e la battaglia continuò incerta fino a mezzogiorno. Alle 10.30 era arrivato pure don Gio.Batta Zanetti con quelli di Lozzo, provenienti dalla “Chiusa” di Venas, e i nuovi arrivati, avanzando lungo il corso del Piova, costrinsero gli austriaci a retrocedere un poco: qui cadde, “colto da parecchie palle ed una di stutzen che gli levò il cranio”, il valoroso ventritreenne Cipriano Da Ronco.
Fu a questo punto che si vide elevarsi dal fienile una grossa e densa colonna di fumo, divampare quindi un vero e proprio incendio e affannarsi intorno ad esso i soldati. Agli occhi eccitati dei cadorini parve di vedere addirittura che degli austriaci portassero sulle spalle e gettassero quindi nel fuoco i corpi dei loro compagni morti e feriti!
Dopo un momento di tregua, che qualcuno vorrebbe interpretare come armistizio istintivo per permettere quella macabra incombenza, dalle rocce di “Rogoetto”, elevantesi a picco sulle posizioni nemiche, precipitò una gragnuola di alberi e macigni. Ciò era dovuto al provvidenziale intervento di una schiera di comelicesi, condotti da Bortolo Bettina di S.Pietro e dal dr. Paolo Agnoli: costoro, dalla valle del Frison, dove s’erano appostati per bloccare un’eventuale avanzata austriaca in quella direzione, visto che il nemico intraprendeva la direttrice della Val Piova, s’erano portati fin sulle cime di “Losco” ed avevano raggiunto in tempo le alture sopra “Rindemera”.
Il loro intervento rinnovò l’entusiasmo dei difensori e riaccese lo scontro, durato intenso fino alle 14.30 del pomeriggio, allorché gli austriaci tentarono la carica decisiva. Si sentirono suonare le trombe e un fitto calpestio sulla strada, scandito da grida risolute (“Ausfall und Sprung vorwärts!”), annunciò il tentativo di sfondamento risolutivo. Circa 20 austriaci riuscirono a percorrere il tratto fino al cunettone, a passare il ruscello e ad investire colle baionette i difensori, ma vennero in qualche modo rigettati, costretti a rinculare, ad ostacolare i compagni che sopraggiungevano dietro, finendo col disorientarli ed indurli a retrocedere a loro volta. Secondo l’erudito A.Ronzon in questo conato offensivo sarebbe stato ferito anche il Capitano Oppel, poi finito anche lui, ancora vivo, nella macabra pira del fienile.
Poco dopo, alle 14.45, si sentì battere il tamburo e si temette un ulteriore attacco: era invece il segnale della ritirata. Gli austriaci, probabilmente smarriti per l’inopinata fine del loro Comandante, preferirono non rischiare altre perdite e due ore dopo giungevano a “Losco”, dove sostarono per un riposo, fors’anche intenzionati a tentare la valle del Frison. Ma essi venivano seguiti a passo a passo dal drappello di comelicesi, che, rinforzati da altri compagni provenienti da “Montecroce”, li seguivano nella ritirata mantenendosi alti sulle rocce e li sottoponevano ad un continuo stillicidio di colpi isolati. Un colpo di “stutzen” più fortunato degli altri riuscì a colpire anche un Maggiore, la cui morte depresse ancor più il morale dei soldati, che, secondo alcune testimonianze, dovettero essere prontamente rianimati dall’intervento di un ufficiale, che li tolse da quell’incomoda posizione e, tra le grida di scherno e gli schiamazzi dei cadorini, li avviò subito verso “Razzo”. Qui avrebbero lasciato morti due dei feriti di “Losco”, prima di scendere a Sauris a notte avanzata.
Ad un uomo di quel paese, certo Giuseppe Petris della Porta, che al mattino aveva fatto da guida fino a “Razzo” ed ora, alle 22, al lume dei fanali, chiedeva l’esito di quella spedizione, un ufficiale avrebbe risposto laconicamente: “Viel sclecht! Viel Blut!” (“Molto male, molto sangue”).
Ma anche a Sauris giungeva l’eco di qualche fucilata sparata per intimidazione sulle alte vie, cosicché, nonostante Sauris offrisse agli austriaci il conforto etnico e linguistico dell’antica colonia tedesca in territorio italiano, gli ufficiali, provati dalla perdita di Oppel, preferirono, in un grande parapiglia, farsi indicare la strada “delle Novaries”, discendere frettolosamente per Mione nel canale di Gorto e portarsi fino a Villa Santina e quindi a Tolmezzo. Qui l’ostaggio Coronin fu finalmente lasciato libero, ma tornò a casa esizialmente minato nel fisico e nello spirito, tanto da rimanere “istupidito e quasi fuor di senno”.
La sera del 28 i patrioti cadorini poterono scendere trionfanti la valle del Piova, cantando “La bandiera tricolore / sarà sempre la più bella”, e a Laggio furono accolti con scene di giubilo dalla popolazione festante.
Purtroppo bisognava piangere 4 morti: Paolo Da Rin Chiantre, Giambattista Pais Tarsiglia e Giuseppe Da Corte Zandetina, caduti a “Selva”, e Tomaso De Florian, deceduto a “Rindemera”. In paese vennero trasportati pure due feriti, Antonio Vecellio e Cipriano Da Ronco d’Andrea, il quale morì a Vigo solo poche ore dopo.
I caduti, deposti sopra lettighe improvvisate con travi e rami d’abete, furono portati nella chiesa di S.Antonio, dove tutta la popolazione andò a salutarli ed onorarli. La lotta era ben lontana dalla conclusione, ma quella sera aveva, non solo per l’Oltrepiave, tutto il sapore di una vittoria certa ed esaustiva, nonché di un’avvenuta emancipazione morale e culturale: era anzitutto la dimostrazione che Calvi poteva contare su soldati determinati ed efficienti, non indegni davvero della sua fama. |